22 SETTEMBRE 2011

La startup all’italiana

Ci vorrebbe un’idea, ecco un commento banale che nessuno usa fare, nemmeno in questi mesi di crisi. Fateci caso. Questo perché, per essere un Paese noto per la sua creatività, coltiviamo una forte diffidenza nei confronti delle idee, anzi siamo al punto che chi è nella posizione di sostenerle o coltivarle non saprebbe riconoscerne una nemmeno con due mani libere e una torcia. E se ci pensate è ben strano: eppure.
No, da noi al massimo si usano le ricette, la ricetta di Tizio, la ricetta di Caio: che mentre l’idea è nuova per definizione, la ricetta è quella che ti ha tramandato nonna, per dire. Che poi han tutte lo stesso sapore, una forte base di trito (e ritrito) e troppi grassi: sarà per questo che il sapore è più o meno sempre lo stesso. E provare uno sforzo d’immaginazione, una volta? Non sia mai, anzi peggio: non si può. Dicono così, loro.
Ci pensavo in riferimento a un banale archetipo narrativo, la tipica storiella della startup all’americana. L’avrete sentita mille volte: un ragazzotto brillante, spesso uscito da qualche prestigioso college, viene folgorato da un’idea geniale. Ne realizza un prototipo funzionante, magari in garage, finanziandosi lì per lì con la carta di credito dei genitori. Poi, verificato che tutto funzioni, prende appuntamento con qualcuno, uno che sia dello stesso settore, uno coi mezzi, col grano insomma, lo va a trovare e gli mette l’oggetto sul tavolo. Letteralmente, ma anche no. Il tizio della Apple, quello di Google, quello di Facebook: è un modello che si adatta a molte case history legate al web e all’innovazione di questi ultimi venti o trent’anni (per dire che non parliamo neppure di roba così recente). Ma si sono sentite storie simili in tutti i settori: il cinema, gli aspirapolveri, le scarpe. Idee concrete e idee astratte, che finiscono sui tavoli che contano.

A volte, il tizio col grano semplicemente non è in grado di comprendere quello che ha di fronte. E, a volte, anni dopo, il ragazzino partito dal garage fa ancora più grano, compra la compagnia a cui aveva chiesto di finanziargli la startup, e caccia il tizio. Poetic justice.
Altre volte il tizio capisce al volo, sgancia un assegno, e il resto è storia.

L’idea che mi sono fatto è che questo Paese viva in una specie di tasca spaziotemporale, una realtà alternativa. In cui il ragazzotto, quando si presenta al sudatissimo appuntamento col tizio che ha il grano, dopo due ore di sala d’attesa squadrato da una segretaria a tre teste, non viene giudicato per la bontà dell’idea, ma per il garage in cui l’ha realizzata. Al tizio col grano l’idea non interessa neppure lontanamente, anzi, non ha il tempo per ascoltarla: guarda com’è vestito, e per prima cosa gli spiega che, se il ragazzotto non ha una capacità produttiva di almeno un milione di pezzi, lui non ha tempo da perdere.

Più tardi, mentre torna a casa in tram, col suo laptop sulle ginocchia, assorto, il ragazzo pensa: se non lavorassi in un garage, se avessi già di mio una capacità produttiva di un milione di pezzi, beh, di certo non avrei avuto bisogno di perdere un pomeriggio per incontrare un coglione col grano.

  1. In compenso, se un “amico di amici” chiede al tizio col grano di rilevare una qualche azienda decotta che serve a tenersi buono qualche santo in paradiso, salta subito fuori il libretto degli assegni.

    Il Gioiellino
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