24 MARZO 2009

La mail con la marca da bollo

L’Economist sostiene che la diffusa gratuità delle infinite offerte di servizi via internet sta per finire. Un po’ per la crisi, un po’ perché in molti avevano pensato che avere molti utenti sarebbe stato sufficiente ad attirare gli inserzionisti, che poi è quel che ha fatto, con successo, Google con i suoi Ads e con il suo progressivo allargamento verso funzionalità sempre nuove, dalla mail al calendario e alle mappe.
Ebbene, l’esperimento è in corso da anni, e malgrado l’emergere di nuovi fenomeni di massa – YouTube, Facebook, MySpace – pare che non stia funzionando. E quindi le compagnie in rete saranno costrette a riprovare a farsi pagare per ciò che propongono. 
L’idea che un domani si debba pagare per usare la mail, più o meno come oggi si mette un francobollo su una lettera tradizionale, non mi sembra così praticabile, anche se scommetto che fa brillare gli occhietti di molti businessmen. La peculiarità della rete, infatti, è quella di trovare più o meno sempre il modo di sostituire un servizio a pagamento con uno gratuito, spesso equivalente e non di rado anche migliore: succede tra i software, con i freeware che spesso “mangiano in testa” alle versioni pro, e succede con i servizi, basti pensare alla scrausa mail di Fastweb che non compete nemmeno da lontano con quella gratuita di Google. E Yahoo stessa ha dovuto implementare il proprio servizio di mail per non assistere a una fuga in massa dei propri iscritti verso Google.
Può anche darsi che alcuni servizi siano troppo costosi da gestire e non siano alla portata del modello wiki, del volontariato contributivo e collettivo insomma, e che quindi quelle alternative free non nascano. Ma resta pur sempre in campo Google, che già oggi per molti è sinonimo di web e che un domani potrebbe istituire un dominio assoluto in base alla sua possibilità di continuare a erogare servizi free.
In secondo luogo, non vedo perché un modello di business che è fallito miseramente negli anni Novanta dovrebbe funzionare oggi: il primo istinto dei giornali, appena messisi comodi in rete e generato un po’ di traffico, era stato quello di chiedere regolari abbonamenti. E sono tutti tornati mestamente sui loro passi.
L’Economist ritiene scontato un assunto che è tutto da dimostrare: e cioè che il modello di business free non sia sostenibile per le grandi compagnie. In realtà, non è detto che chi usa la rete abbia interesse a servirsi e a veder prosperare le grandi compagnie, specie considerando che spesso quelle più in crisi non sono nate in rete, ma provengono da altri settori – ad esempio l’editoria cartacea – e sono sbarcate sul web solo perché speravano di farvi degli utili. Non hanno cioè verso internet quel tipo di sensibilità nativa che è così distinguibile nelle web company pure, ma vedono la rete come se fosse un settore come un altro. E questo sembra un dettaglio mentre probabilmente è un difetto letale. Chi al supermercato acquista prodotti di marca forse lo fa perché esprime fiducia verso il produttore, e in fondo chi va in edicola fa lo stesso nei confronti della testata di un giornale, ma apparentemente internet rappresenta per l’utente un nuovo mondo, dove una volta sbarcati ci si dimentica del vecchio e si cerca ciò di cui si ha bisogno purchè soddisfi i nostri bisogni.
Insomma, caro Re d’Inghilterra, vuoi venderci a vita il tuo pollo allevato nel Vecchio Continente? Sarà buonissimo, ma qui è pieno di tacchini, e non sembrano niente male.
Ovviamente nessuno ha la palla di vetro, ed è plausibile che nei prossimi mesi tra alcuni degli attori di primo piano del web vi sia una selezione anche drastica. Che questo metta in discussione la natura distribuita dell’ecosistema on line è tutto da dimostrare: il nervosismo diffuso dà l’impressione di riguardare soprattutto le realtà più grandi, col risultato che gli analisti si dimenticano delle milioni di situazioni più piccine e nella foga di azzardarsi nella previsione degli scenari futuri prendono qualche sfondone.

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