25 APRILE 2009

Procurato allarme

E adesso che tocca alla febbre suina cosa dobbiamo fare? Bisogna preoccuparsi, smettere di acquistarla e mangiarla, o alla fine tutto si risolve in un gigantesco allarme con conseguenze reali sproporzionatamente piccole, come nei casi della mucca pazza e dell’influenza aviaria? Moriremo tutti con una braciola in mano perché a forza di sentire i media gridare alla pandemia a un certo punto ci siamo scocciati e siamo stati irresponsabilmente golosi, oppure manderemo sul lastrico un altro settore alimentare, come già successo per polli e manzi? Vedremo Berlusconi addentare uno stinco alla bavarese in diretta tivù per rassicurare i consumatori? A che punto della giostra ci avviseranno che, gente, questa volta è sul serio, oppure no, abbiamo di nuovo scherzato?

Come se fosse una madeleine epidemiologica, la storia mi ha fatto tornare in mente che per una larga fetta della mia infanzia la Sardegna ha subito la quarantena della peste suina. Io ci andavo coi miei un paio di volte l’anno, per trovare i parenti, e ogni volta cercavamo di violare l’isolamento portandoci via uno scatolone di salumi fatti in casa: mai stati perquisiti, e a natale un altro pacco arrivava regolarmente via posta. Penso non lo guardassero proprio, i controllori, perché il profumo emanava abbastanza distintamente, senza bisogno di ispezioni più accurate.
I genitori di mia madre erano stati allevatori di sussistenza (nel senso che tenevano qualche animale giusto per poter mangiare), durante la Guerra e dopo, in seguito avevano aperto una macelleria e pescheria imparando i segreti della salsamenteria, e avevano proseguito ad allevare qualche maiale all’anno per prodursi in proprio salsicce, prosciutto, lardo, coppa, capocollo e altre prelibatezze. Quei maiali non conoscevano mangimi chimici, la lavorazione delle carne avveniva in casa senza sofisticazioni di nessun tipo e posso garantire che dal giorno in cui hanno cessato di farne più io quei sapori non li ho più sentiti, nemmeno quando vado a prendere il culatello da 100 euro al grammo.
Un mondo, quello della Sardegna rurale, che provvedeva a se stesso in mancanza di altri beni disponibili, e ogni famiglia si produceva i salumi, la carne, i formaggi e persino il pane. Forse, il succo della vicenda è che bisognerebbe sapere chi ha prodotto quello che si mangia, come sono state allevate le bestie, quali ingredienti sono stati usati. E sarebbe facile lasciarsi andare alla retorica di un mondo in cui le cose tornino a essere così. Ma la verità è che è impossibile.

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