13 NOVEMBRE 2009

Favorevoli?

sordi_alberto_taxi_andreotti_ADN--400x300_10aeee48f28369dfcdf4c2979537ca06E’ da una settimana che mi affanno a trovare il lato umoristico della mia gita romana dello scorso weekend, quella all’assemblea del Partito Democratico, quella che ha ratificato la nomina a segretario di Pierluigi Bersani e con lui tutto un ensemble di sottogoverno. Lo cerco, il lato buffo, ma fatico a trovarlo.
Eppure gli spunti non mancherebbero: quando arrivi a Fiumicino, aeroporto che nelle mie pur frequenti peregrinazioni lavorative non tocco quasi mai, per raggiungere la stazione ferroviaria, unico collegamento a buon mercato con il centro della capitale (si fa per dire: 11 euro di biglietto) bisogna percorrere un labirintico e chilometrico dedalo di tunnel che neanche un livello di Doom. Con un solo sportello aperto in biglietteria e il treno quasi in partenza, utenti che bestemmiano e addetti che rispondono da dietro ai vetri, sillabando “nun me rompete li cojoni” si entra subito nel clima, diciamo così. Un’ora a Roma, e anche il più bendisposto inizia a dare ragione alla Lega.
Dalla stazione Termini a Montecitorio (che ho scoperto essere Monte Citorio, in realtà), nella cui piazza, sala Capranichetta, mi attendeva la riunione tra Ignazio Marino e gli eletti alla sua mozione, a sentire gli autoctoni ci si può andare a piedi: sono due chilometri, non troppi, a meno che si sappia con certezza in che direzione andare, e non piova. Ovviamente pioveva, ed è curioso che la prima prova romana nel mio nuovo ruolo di eletto all’assemblea nazionale del Pd sia stata quella di maledire il nuovo segretario, Bersani, per come non era riuscito a riformare il servizio taxi nel nostro Paese. Provate a trovarne uno in una giornata piovosa e trafficata, e mi darete ragione anche se siete bersaniani incalliti. 
Lo ammetto, avevo certe aspettative sui taxisti romani, o quantomeno mi ero posto il problema. Se ne avessi trovato uno distinto, professionale e distaccato ne avrei preso atto con un po’ di delusione. Invece sono finito sul cab di Claudio, che mi ha subito chiesto “che stai in politica te? Stai ner piddì, co’ Bbersani. Ammazza, ma ‘sto Marazzo, eh? Che fijo de ‘na mignotta”. Mi è talmente piaciuta, la compagnia di Claudio, che mi sono fatto lasciare il numero di telefono e l’ho richiamato in serata, per farmi portare in hotel.
Aggiungerei che ho mangiato pessimamente, nei due giorni romani, se non fosse che trattandosi di un appuntamento politico e non di una gita il primo aspetto rischierebbe di sparire rispetto al secondo. Però è così, sull’aspetto più importante c’è in realtà poco da dire. Si va in assemblea a ratificare più o meno automaticamente una lenzuolata – termine non casuale – di nomine decise altrove. Dove, posso solo immaginarlo. Quello per il segretario è un voto ovvio: ha vinto, l’assemblea lo ufficializza, e buon lavoro. Poi c’è la direzione nazionale: saranno cento nomi, non saprei. Alcuni vengono fuori dagli accordi tra le tre mozioni: sessanta a me, trenta a te, il resto a quell’altro. Altri sono membri di diritto, altri ancora sono scelti personalmente dal segretario. Il presidente dell’assemblea – Rosy Bindi – legge semplicemente l’elenco, e alla fine chiede di votare a favore o contro, alzando il badge. O astenendosi.
Io, per dire, stavo chiacchierando, e non mi sono fatto un grande problema di alzarlo quando era il momento, neppure per astenermi. In ogni caso non ero certo del senso di cosa avrei votato. Ma nessuno ha sentito la mancanza del mio parere sulla cosa. Per spiegarla in termini semplici, la direzione e l’assemblea stanno al Pd come il governo e il parlamento stanno all’Italia. Più o meno. Così come oggi il nostro parlamento è quasi del tutto esautorato dal suo compito legislativo, stabilito dalla costituzione, limitandosi ad approvare a colpi di voti di fiducia quanto deciso dal governo, allo stesso modo l’assemblea del Pd ha il solo scopo di approvare decisioni che sono sate prese altrove. Magari il nuovo presidente Rosy Bindi – e il suo vice Scalfarotto, l’unica vera buona notizia ricevuta sabato scorso – saprà dare all’assemblea un ruolo diverso. Ma al momento funziona così.
Può sembrare la classica montagna che partorisce il topolino: quattro mesi di lavoro -lavoro folle, garantisco – per poi non potersi esprimere su nulla, se non su giochi già fatti. Vero: è il problema della democrazia, esercizio illusorio e difficile. La sua difficoltà non deve essere però il pretesto per farne a meno, come suggerisce qualcuno – spesso proveniendo da formazioni che la democrazia non l’hanno mai praticata - ironizzando sui limiti che le primarie e il partito hanno in questo momento.
Anzi, tutto il contrario: è più di una sfida, è un lavoro a tempo pieno.

  1. Scommetto che passeggiando per piazza Monte Citorio canticchiavi “I’m an alien, I’m a legal alien…”

    anonimo
  2. Vabbé, ma che se fa così? Neanche un incontro inatteso, un “ho visto D’Alema”. Ero curioso.

    anonimo
  3. Da un lato le assurdità, i regolamenti astrusi, le contraddizioni di tutto il meccanismo dietro alle primarie, tutte cose che su questo blog sono state raccontate con dovizia di esempi. Dall’altro il valore delle primarie in sé, come strumento democratico. E’ vero che di fronte ai problemi verrebbe voglia di buttare il bambino con l’acqua sporca. Sarebbe un disastro: non solo perché i dirigenti del Pd hanno dimostrato che quando fanno da soli fanno disastri, ma perché è sufficiente vedere cosa capita altrove: Di Pietro ora che guida un partito importante rischia di vederlo spaccare in due proprio perché non accetta la competizione interna di De Magistris, il Pdl ha un padrone di fatto e non è una situazione che mi auguro. Insomma, è una strada difficile ma è l’unica strada.
    ES

    ES