21 MAGGIO 2009

Generazione di sconvolti

Ieri sera parlavo con mio cugino, che è quello della famiglia che ne capisce di musica, e ragionavamo su Vasco Rossi, argomento dal quale in genere non si riesce a cavare niente di buono. Riflettevamo su come gli attuali fan di Vasco lo percepiscono oggi, anzi di come hanno iniziato a percepirlo già molto tempo fa, secondo il mio parere dalla metà degli anni Ottanta in poi, quando è passato dall’essere il cantante dei poco di buono allo status di rockstar da stadio.
Quello di prima e quello di dopo sono per me due persone molto diverse: non voglio qui affrontare un’analisi sulla sloganistica a cui si è dato dal periodo di "C’è chi dice no" in poi, quando ha iniziato a rappresentare un affare sempre più grande per i discografici e i promoter, quando sono arrivati i musicisti americani e le grosse produzioni, quando progressivamente la collaborazione con Guido Elmi e Massimo Riva ha iniziato a scemare (fino alla tragica morte di Riva), quando il conformismo di un essere contro di facciata ha preso il posto della capacità di descrivere un malessere vero, e vissuto.
La seconda fase per me si riassume tutta in canzoni come "Un senso": il verso "voglio trovare un senso a questa sera, anche se questa sera un senso non ce l’ha" si ripete cambiando "sera" con "vita", poi con "storia", poi con "voglia", poi con "situazione", poi con "condizione": e nel frattempo la canzone se n’è bella che andata, c’è giusto spazio per la chiosa in cui "se non ha un senso, domani arriverà lo stesso". Sloganistica, come dicevo, e chi conosce bene Vasco sa della sua profonda curiosità per i linguaggi pubblicitari e la comunicazione. A sentirlo parlare non gli si farebbe neppure parcheggiare l’auto, ma in realtà Vasco è un intellettuale capace di un pensiero di sintesi estremamente efficace: le apparenze ingannano.
Lo dimostra il fatto che, nelle sue produzioni da "Ma cosa vuoi che sia una canzone" in poi, dal 78′ quindi, e fino a "Bollicine", datato 1983, Vasco Rossi è stato l’unico narratore di una generazione, la sua, sterminata dalla droga. E questo è davvero il lavoro tipico di un intellettuale, peraltro piuttosto unico nel suo genere, e nel compito che si era dato in quegli anni.
Tra "Bollicine " e il successivo, "Cosa succede in città" passano due anni in cui Vasco sventa il destino che lo accomuna ai suoi coetanei e diventa un sopravvissuto: nel 1984 viene arrestato per possesso e spaccio – non a scopo di lucro – e rinchiuso in carcere, dove si disintossica ricevendo la visita e la solidarietà solo di due persone, Fabrizio De Andrè e la moglie Dori Ghezzi. Il Vasco degli anni successivi è un altro uomo: inizia un percorso di sobrietà in cui le ricadute si diradano, chiude progressivamente con le vecchie compagnie e i collaboratori storici, diventa padre, e si trasforma in un fenomeno discografico ancora più importante, dando il via a una stagione, quella delle folle e dei concerti da stadio, che prosegue ancora oggi.
Ma il cambiamento più significativo è che, in un rapporto di uno a dieci, inizia ad affiancarsi al pubblico più o meno suo coetaneo una massa di ragazzi molto più giovani, che nel tempo continueranno ad affluire, una generazione dopo l’altra, andando quasi completamente a rimpiazzare i suoi fans originari. E lui, difficile dire quanto consciamente, vi si adeguerà, decontestualizzando e diluendo il suo vissuto in un nuovo messaggio meno personale e più universalmente comprensibile, ma anche molto meno interessante, originale e personale, lasciando il dubbio in chi ascolta i pezzi degli inizi su quale fosse il mondo che descrivevano.
Beh, quel mondo lì è esistito per davvero, anche se a chi è arrivato dopo sembra difficile crederci: è stato curioso, oltre che tremendo, il destino di quelli che avevano vent’anni alla fine degli anni Settanta o nei primi Ottanta e si bucavano. Ne sono morti molti più così, con una siringa al braccio, e più tardi di Aids, che di terrorismo. Non c’è paragone: eppure, per vari motivi, sul terrorismo sono state spese molte parole, sui libri, dai media, e ancora oggi cova sotto la cenere del tempo qualche rivendicazione, qualche conto da regolare.
Sull’eroina, e su quel che ha fatto a un’intera generazione di italiani, in confronto, non è stato scritto nulla: non c’è stata analisi, si sa solo che a un certo punto i ragazzi hanno iniziato a frequentare sballi meno autolesionistici, e si è voltata pagina. E’ abbastanza strano, se ci si pensa: quei ragazzi sono incappati in qualcosa che non sapevano bene dove li avrebbe portati. Li ha portati quasi tutti al cimitero, e questa è una lezione che ha potuto apprezzare solo chi è venuto dopo, come me, ma a proposito del loro sfortunato destino di doverci fare da monito non è stata spesa la giusta pietà umana, e non abbastanza tempo a rifletterci.
L’eroina, a differenza della politica rivoluzionaria di matrice rossa o nera, ha avuto la capacità di penetrare molto più in profondità nella società italiana, senza fermarsi alle Università delle grandi città, anzi attecchendo specialmente in provincia. Il grande strapaese italiano, quello in cui, quando hai vent’anni, sei talmente stordito dal vuoto ovattato che ti circonda che faresti qualsiasi cosa per uscirne: e quei ragazzi trovarono la loro via di fuga nel buco.
Non mi vergogno a provare compassione per la loro sorte: il moralismo è un facile esercizio, ma è spesso ipocrita. Puntare il dito contro il drogato era così facile, in quegli anni, ma quando si è adulti si tende a dimenticare con troppa facilità quali enormi errori si possono fare quando si è giovani e si sente di non avere un proprio posto nel mondo. Io me la ricordo bene, la piazza del paesino in cui sono cresciuto, affollata dai drugà che chiedevano le 100 lire, e che mentre entravo in un’adolescenza problematica ma per mia fortuna non così autodistruttiva iniziavano a morire, uno dopo l’altro. Barcollanti, uscivano dalla scandalizzata visuale della gente per bene, il viso gonfio per i medicinali, la parlata stentata e illogica. Dopodiché, i preoccupati possessori di autoradio hanno potuto finalmente dormire sonni più tranquilli. Ma liberare quelle panchine richiedeva davvero un tributo di vite umane così pesante? Oppure, morti quelli che si pensava fossero i portatori di una piaga, si è invece scoperto che non erano altro che un sintomo, e che oggi sempre più è conclamato quel male di vivere contro cui non abbiamo vaccini e lentamente ci avvelena?
Il mio è un ricordo emotivo, ci tengo a dirlo, ma proprio per questo a un certo punto mi sono chiesto dove fossero i testimoni, dove gli intellettuali a cui spetta il lavoro di razionalizzare, di farsi certe domande e portarci ad affrontare le risposte. Tra tutti i possibili candidati, nessuno nella nostra cultura ha ricoperto quel ruolo come Vasco Rossi da Zocca. Con i limiti che sono evidenti, specie se si cerca di portare verso un’analisi più elevata un messaggio che è nato basso, leggero, semplice. Ma non per questo privo di spiazzante, letteraria precisione:

Dice mia madre, "devi andare dal dottore a farti guardare, a farti visitare, hai una faccia che fa schifo, guarda come sei ridotto, mi sa tanto che finisci male". La guardo negli occhi con un sorriso strano, neppure la vedo, ma forse ha ragione davvero.
Ma fuori c’è la festa del paese e vado a fare un giro… non l’ho neanche detto, che già c’è mia madre che mi corre dietro con il vestito nuovo: la fuga è veloce, mi metto le scarpe che sono già in strada. Che bella giornata, non bado alla gente che guarda sconvolta, ormai ci sono abituato, sono vaccinato, sono controllato, si pensa ormai addiritura in giro, è chiaro, che sono un drogato.
La festa ha sempre il solito sapore, il gusto di campane, non è neanche male. C’è chi va a messa e c’è chi pensa di fumare, come aperitivo, prima di mangiare. Fini s’è alzato da poco, e non è ancora sveglio, ed è talmente scazzato che non riesce a parlare nemmeno.
La sera che arriva non è mai diversa dalla sera prima, la gente che affoga nell’unica sala, la discoteca: ci vuol qualcosa per tenersi a galla sopra questa merda, e non m’importa se domani mi dovrò svegliare ancora con quel gusto in bocca.

  1. Risponde Vasco ad una domanda che gli fece un giornalista tempo fa: “è difficile parlare di droga in una canzone?”

    risposta: “è difficile quando ci sei stato dentro. Penso a Bigazzi che fa cantare a Masini “perchè lo fai?” e mi fa ridere, tanto ridere. Bigazzi non sa un cazzo di droghe,il suo è un APPROCCIO QUALUNQUISTA, BANALE, RIDICOLO. Io , che ho fatto sette anni di cocaina, quando sento chiedere “perchè lo fai” mi viene da rispondere “perchè non ti fai i cazzi tuoi?” C’è chi cavalca tigri che sono nelle gabbie di un altro. Ci vuole credibilità per cantare certi argomenti. Per cantare “This is the end, my only friend, the end” ci vuole Jim Morrison NON UNO QUALUNQUE. Spesso c’è la tendenza a trovare un capro espiatorio perchè è molto piu’ facile che risolvere i problemi. Le mie canzoni sono pugni in faccia che dovrebbero fa riflettere tutti, INSINUARE QUALCHE DUBBIO. Invece è piu’ facile EVITARE IL PROBLEMA puntando il dito contro di me. Una volta dicevano: “Ma cosa vuole quello li’? non è credibile, E’ SOLO UN DROGATO” Ma che vuol dire? che se uno dice una cosa intellgente ma appartiene ad una “generazione di sconvolti che non han piu’ santi nè eroi”, una categoria definita “diversa”, “non normale” allora automaticamente la cosa diventa stupida?”

    Betta

    utente anonimo