11 MARZO 2009

In taglio basso

L’ultimo numero di Internazionale, che è sempre un bel piacere settimanale, mette in copertina il dibattito sul futuro dei giornali cartacei e di quelli on line, e pubblica una discreta mazzetta di contributi usciti nell’ultimo mese su importanti testate internazionali. Il tono generale delle illustri argomentazioni prende atto del fatto che la profezia di ieri – “entro dieci anni i giornali come noi li conosciamo saranno cambiati o spazzati via dal web” – debba probabilmente essere rivista oggi secondo timing più stringenti. Ora, infatti, si scommette su chi chiuderà entro il trimestre in corso. I ragionamenti fatti sono necessariamente ampi, quando invece, probabilmente, vedremo testate oggi molto simili tra loro applicare ricette diverse, con risultati che potrebbero essere anche pesantemente differenti. 
Nel frattempo ci si interroga sul modello di business da inventarsi per il futuro: i proventi del web non bastano, i lettori on line sono abitati ai contenuti gratuiti, la pubblicità on line rende un decimo di quella stampata, perché è sempre stata venduta così e perché gli inserzionisti ormai la vedono in questo modo, pagandola un click per volta: il che equivale a contare quanti scendono al bar a farsi una birra subito dopo aver visto uno spot della Moretti. Come sarà possibile per una testata continuare a trovare i fondi per finanziare le grandi inchieste e pagare gli inviati nelle zone calde del mondo, ovvero a garantire quel giornalismo di qualità che costa molto, non ha appeal pubblicitario ma costituisce l’essenza stessa del dare notizie?
Con onestà, qualcuno fa notare che questo tipo di giornalismo “alto”, oggi rappresenta una percentuale molto esigua del pubblicato, schiacciato com’è dal gossip, dal chiacchiericcio e dalle marchette: e questo è innegabile, e non solo sulla carta stampata. Repubblica e Corriere, ad esempio, alzano le proprie visite con abbondante uso di calendari scollacciati, filmati buffi e gatti particolarmente obesi: siccome moltissimi usano internet soprattutto in ufficio, i giornali italiani on line, unici al mondo, hanno intercettato tutti quegli impiegati il cui datore di lavoro non gradiva di vedere i propri sottoposti navigare su siti come Bastardidentro o alla ricerca di porno soft: questo pone un problema di approccio, non solo di strategie future. Le versioni cartacee, invece, ormai sono affogate tra inserti e allegati modaioli.
Invece di interrogarsi sul loro ruolo, tutti gli addetti ai lavori che conosco agiscono in base alle loro incrollabili certezze sui lettori, mai verificate: nessuno ha più voglia di leggere, l’informazione deve essere breve e, implicitamente, il lettore è sprovveduto, mangia quel che gli si mette nel piatto senza farsi domande sulla ricetta, ma al tempo stesso bisogna per forza capire cosa vuole e deformare il proprio mestiere finchè non si è trovato il modo di accontentarlo. E così facendo si fanno sfuggire il fatto che non c’è mai stata tanta fruizione di informazione come oggi, che è sempre più consapevole, e che quando non è così non è certo colpa dei lettori, ma di chi le notizie le fornisce in modo pigro, inetto o inadeguato. Questo non impedisce all’informazione di essere superficiale anche quando occupa molto spazio e per molti giorni: come quando parte un dibattito su un disegno di legge controverso, e si buttano pagine su pagine di botta e risposta tra parlamentari senza che a qualcuno venga in mente di pubblicarlo, il testo del disegno di legge.
Tornando ai contenuti importanti, le inchieste e le guerre e i genocidi, nessuno tra quelli letti su Internazionale si ricorda di citare la vergognosa politica, sempre più diffusa anche da noi, di editori che nelle zone calde mandano i freelance, giusto per risparmiare qualche euro e non avere responsabilità nel caso succeda qualcosa. “Senti, ad Haiti la folla inferocita occupa le strade roteando i machete: facciamo che ci vai con mezzi tuoi, se trovi qualche notizia ti paghiamo a riga pubblicata”. Quanto alle inchieste, anche se la carta stampata non c’entra, succede anche che un programma pur meritevole come Report e la rete che lo manda in onda mollino un collaboratore nel momento in cui un suo servizio viene contestato in sede legale. E questa più che editoria è caporalato.
Al tempo stesso, magari si tiene a libro paga un ex direttore a curare l’angolo della posta, e ogni mese gli si manda un bel bonifico di migliaia di euro. Questo perché soprattutto in Italia tutto quel che è successo nel mondo dell’informazione non ha cambiato la progressività della professione di chi è regolarmente inserito in un giornale: un professionista assunto quest’anno guadagnerà 10, l’anno prossimo 12, quello dopo 15, e tra dieci anni da solo arriverà a costare come tutta la sezione esteri. E quando si ritiene di dover mettere qualcuno al suo posto gli si trova comunque un cantuccio dove sistemarsi, alle stesse condizioni economiche, perché non si sa mai, “oggi a te domani a me”. Più, ovviamente, auto aziendale nuova ogni 12 mesi, telefonino, pc portatile e copertura dentistica compresi tutti i familiari gentilmente offerta dall’Inpgi. Ma tutto questo cambierà, siamo già agli sgoccioli. Poi ci sono quelli che sono inviati a Mosca e raccontano quel che vedono sulla Cnn, e quelli che stanno a Londra e producono solo servizi sui buffi cappellini della regina. Insomma, se si cercano rami da sfoltire c’è l’imbarazzo della scelta. Invece, chissà perché, quando arriva la crisi i primi a essere tagliati sono proprio i servizi di qualità, così si può scrivere un bel comunicato al comitato di redazione iniziandolo con “E’ con grande rammarico”. Non capita mai di sentire un direttore dire “da domani mandiamo in pensione l’inviato a Tokio che scrive solo di sushi mangiato sul corpo nudo delle ragazze, e con il suo stipendio assumiamo cinque ragazzi volenterosi”. E questo il direttore non lo dice perché è proprio lui a chiedere i servizi sul sushi porno.
Tornando agli articoli su Internazionale, nessuno degli interventi prende atto del fatto che l’informazione in rete, specie quella migliore, è spiccatamente verticale, e non si spalma orizzontalmente, pretendendo di raccontare tutto, come invece fanno i giornali tradizionali. Che si tratti dell’ultimo telefonino o della politica internazionale, l’informazione sui siti specializzati è trattata sempre più spesso in modo molto più competente di quanto non faccia la stampa generalista: e di siti piccoli che grazie alla competenza hanno conquistato i lettori e fatto i soldi ne è piena la rete, col vantaggio tipico del web che quando questi siti diventano troppo sensibili agli interessi degli inserzionisti i lettori se ne accorgono e si spostano altrove.
Personalmente non vedo proprio la necessità di avere sul web un contenitore generico di news, visto che riguardo sempre più temi ho a disposizione gratuitamente fonti più accurate. Il problema del “cosa trattare”, ovvero la scelta di una piattaforma editoriale, mi ricorda molto la battaglia combattuta anni fa tra Google e tutti gli altri motori di ricerca: da Yahoo ad Arianna (qualcuno ricorda Arianna?) erano tutti impegnati a presentarsi come portali, e non come semplici motori di ricerca, e riempivano le propria home page di tutto e di più. Mentre Google aveva solo una finestra e i tasti di ricerca: ma non penso ci siano dubbi su chi l’ha spuntata. Non sarebbe male se anche i grandi quotidiani si interrogassero su cosa è utile per loro che venga affrontato dentro le proprie pagine.
Quanto al come, credo anche che chiunque abbia seguito un po’ da vicino le elezioni americane abbia visitato più spesso FiveThirtyEight che non i siti dei quotidiani, che se ne uscivano con una stupidaggine al giorno. Non mi pare che i giornali siano pronti, nè lo saranno mai, al livello di approfondimento reso possibile dalla rete: i quotidiani sono fatti in un modo per cui, se muore assassinato il presidente del Senegal, lo spazio in pagina è di dieci righe in taglio basso, se va bene. Poi, solo due pagine più in là, magari escono diecimila battute sull’amore tra Belen e Corona: il tutto deciso secondo criteri di vendibilità, ma il risultato è che volendo saperne di più sul Senegal una volta sarei rimasto a bocca asciutta, mentre oggi vado su un sito specializzato in affari africani, gratis, velocemente e senza muovermi da casa.
La mia personale sintesi di tutta la faccenda è che il settore intero – gli editori e i giornalisti abituati a vivere con i piedi al caldo – hanno tirato la corda come fanno tutti quelli che ritengono di essere insostituibili. E oggi che è arrivato il rimpiazzo non si capacitano.

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